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APRILE 2022.

Come eravamoNei primi decenni di storia dello sport, agli albori dell’attività sportiva di base e anche dello sport professionistico, non sono mai mancati gli intellettuali che se ne occupavano, interessati e incuriositi da un fenomeno che, in modo pioneristico e di frontiera, coinvolgeva e appassionava inizialmente poche migliaia di persone, come praticanti, poi decine di migliaia sulle tribune dei primi stadi, e infine centinaia di migliaia ad ascoltare le partite e le manifestazioni sportive alla radio. Certo, nulla di paragonabile ai milioni di telespettatori delle televisioni di oggi ma, proprio per questo, un mondo tanto più vero e interessante. Senza voler scomodare i soliti Pier Paolo Pasolini e Umberto Saba, appassionati di football e sostenitori, veri e propri tifosi, delle squadre del cuore della propria città, il Bologna e la Triestina, basti solo pensare al poeta Alfonso Gatto, e alle sue cronache fra letteratura e giornalismo dei Giri d’Italia eroici, quelli di Coppi e Bartali, oppure allo scrittore Giorgio Bassani che, oltre a far ruotare intorno a un campo da tennis il suo capolavoro “Il giardino dei Finzi-Contini”, da vero esperto commentava gli incontri dei campioni dell’epoca. In tempi più recenti, abbiamo avuto Nanni Balestrini, grande poeta e scrittore che, dopo aver narrato la contestazione e le lotte operaie degli anni ’70, che lo videro anche protagonista in prima persona, indagò negli anni ’90 il fenomeno ultrà, passando, fu detto ironicamente, dalle Brigate Rosse alle Brigate Rossonere. Non possiamo dimenticare Carmelo Bene, intenditore di calcio, che confessò: “Diciamo la verità, non abbiamo mai digerito l’addio di Marco Van Basten”, da lui genialmente definito, dal punto di vista estetico: “Più che giocare, lui era giocato”. Poi, per molti anni, non ne abbiamo più sentito parlare, non tanto per colpa degli intellettuali, ma dello sport stesso, ormai divenuto un fenomeno quasi esclusivamente di spettacolo e di mercato. Ben venga oggi, quindi, un nuovo libro che parla - anche – di “noi”, come “Il controllo del pallone” scritto dal francese Fabien Archambault, storico, ex allievo della Scuola Normale Superiore e professore associato di storia contemporanea dell’Università della Sorbona. Indagando gli anni dal 1943 alla fine degli anni ’70, sviluppa e approfondisce una tesi interessante. L’intervento contrapposto in Italia di due grandi forze d’influenza, la Chiesa Cattolica e il Partito Comunista Italiano, per sostenere e far crescere lo sport e utilizzarlo come mezzo d’influenza nei confronti delle masse popolari. Questo, sia dal punto di vista dello sport di vertice e professionistico, il calcio di Serie A in particolare, sia in quello nascente di base, presso parrocchie, oratori e centri sportivi, là dove erano schierati l’Uisp, diretta emanazione del PCI, e il CSI Centro Sportivo Italiano, soprattutto nel periodo successivo all’affrancamento dall’Azione Cattolica, che inizialmente non vedeva di buon occhio tale strategia. Il lavoro rappresenta una grande opera di ricerca e documentaristica, anche se non mancano alcuni errori di valutazione e inesattezze. E’ comunque suggestivo ripercorrere il contesto sociale e culturale che, per almeno 30 anni, divise l’Italia e l’Europa, con da una parte chi vedeva come modello l’Unione Sovietica e dall’altra chi tentava con lo sport di trattenere in oratorio i ragazzi, che in quegli anni rischiavano di restare senza una guida, con una visione, lo dobbiamo dire con grande sincerità, molto più attuale di quella di oggi… Non mancano autentiche chicche ed errori di prospettiva. Fra le prime, il tentativo di Giuseppe Di Vittorio, all’epoca Segretario della CGIL, di creare una squadra di Serie A sul modello delle compagini dei paesi comunisti, Germania Est, Romania e dintorni. Una Lokomotiv, Dinamo o Metallurg, formata da operai o soldati, sul modello sovietico. Peccato che tale modello fosse inattuabile: ve la immaginate una squadra del genere affrontare le avversarie dell’epoca, l’Inter del petroliere Moratti o il Milan dell’editore Rizzoli, piene di campioni italiani e stranieri? Diverso era il caso delle squadre sportive dell’Europa dell’Est, diretta emanazione di esercito, polizia o di colossi dell’industria e dell’energia, governate in modo dittatoriale, le stesse “corporazioni” che furono poi da modello al cinema per il capolavoro “Rollerball” del 1975. Fa sorridere, poi, il riferimento alla Uisp, quando sostiene che, a causa del persistere del partito all’opposizione del Paese, la stessa fu privata di spazi per esercitare la propria attività, che ne subì una contrazione. Evidentemente, l’autore non ha fatto un passaggio per Bologna, o per l’Emilia-Romagna dove, proprio a partire da quegli anni, sfruttando una contiguità che è poi diventata identità assoluta, fra l’Ente di Promozione Sportiva, il Partito e il Governo degli Enti Locali, è in vigore a favore della Uisp, e negli ultimi trent’anni anche dell’Aics, un monopolio sugli impianti sportivi pressoché assoluto, che non eguali, questo sì, nell’intero mondo occidentale. Come eravamo dunque, prima che, dalla fine degli anni ’70, la contestazione, il terrorismo e le battaglie civili modificassero profondamente la società. Oggi, parrocchie e Diocesi non combattono più, ma aprono sempre più spesso le porte alle attività di Enti di Promozione Sportiva dalle idee anche opposte, anzi forse ancora più anti-cattoliche di allora. Realtà sportive legate o appartenenti alla Chiesa che non riconoscono più il Centro Sportivo Italiano, ma prediligono Enti di nuova formazione, di cui nessuno conosce storia e origine, ma solo un’adesione funzionale e a stento tecnica e gestionale. Il libro di Fabien Archambault, pur con i suoi limiti, in ogni caso incuriosisce, interroga e appassiona, anche per cercare di capire come eravamo, e perché non siamo più.             

Andrea De David

presidenza@csibologna.it

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